Bene, una volta delineati gli schieramenti titanici di uno scontro che dura da un secolo o giù di lì, possiamo delineare quella potrebbe essere semplicemente una via di mezzo: la non-teoria sugli attacchi di panico. Ecco, in realtà, come con tutte le non-teorie, si può parlare anche di una meta-teoria o, più semplicemente, di una teoria ibrida.
Da quello che abbiamo detto finora, anche se non vi sono molti punti di sovrapposizione, ovvero similitudini, vale la pena prendere in considerazione le compatibilità tra i diversi punti di vista.
Una cosa che la psicoanalisi non mette in discussione, anche perché non la prende proprio in considerazione, è che per quanto riguarda la modalità del circolo vizioso che caratterizza il disturbo di panico, si possa trattare di una forma di apprendimento. Solo che, aggiunge implicitamente, il risultato del consolidamento del disturbo è possibile esclusivamente nei soggetti predisposti dalla propria psiche.
La teoria, quindi, serve fino a un certo punto. Il suo scopo principale, in fondo, è quello di aiutare a riconoscere il caso clinico che si ha di fronte e applicare la cura più adatta.
Possiamo dunque applicare un paradigma ateorico, rispetto al dibattito tra i due schieramenti di cui ho parlato, utilizzando un costrutto pratico che sia in grado di interpretare sia la sfera fisiologica che quella mentale, fornendo le linee guida per lo psicoterapeuta che affronta i disturbi ansiosi e, in primis, il disturbo di panico.
Adattando un vecchio motto, potremmo dire che in teoria vi è molta differenza tra una teoria e l’altra, ma in pratica spesso non è vero.
Come spiegare quest’affermazione così radicale? In parte non deve essere spiegata, in quanto è più che altro una provocazione. Ma in parte mantiene una sua verità: tutte le teorie sulla psicoterapia non possono prescindere dal fatto che vi sono alcune caratteristiche invariate nelle sedute di psicoterapia, prima fra tutte, per esempio, il rapporto tra l’individuo e lo psicoterapeuta.
Comunque bisogna fare distinzione tra attacchi di panico intesi come manifestazioni fisiche episodiche e il disturbo di panico, inteso come serie collegata di attacchi di panico. Infatti, sia dal punto di vista della psicoanalisi, sia da quello della terapia cognitivo-comportamentale, non è tanto il singolo attacco di panico ad essere considerato come sintomo, ma la paura ad esso conseguente che possa ricapitarne un altro.
Cosa significa questo, dal punto di vista clinico?
Anche se il sintomo, qui, possiamo identificarlo nel disturbo di panico, cioè nella successione di più attacchi o nella paura dei successivi attacchi (questa definizione è volutamente più ampia di quella che si ricava dal manuale diagnostico, il famoso DSM IV), in fase di terapia è necessario soffermarsi sia sui singoli episodi, in una prima fase, perché in molti casi i soggetti hanno bisogno di sapere come comportarsi durante l’emergenza.
In certi casi, solo successivamente diventa possibile occuparsi della paura del prossimo attacco e dei motivi che causano l’angoscia.